Non è vero ma ci credo

Non è vero ma ci credo

by My Store Admin

In una caverna buia, circa cinquantamila anni fa, degli uomini come noi disegnavano la sagoma di un bisonte sulla parete rocciosa delle caverne. Fuori, probabilmente, il cielo ringhiava tutta la sua inafferrabile ferocia, dei lampi illuminavano a giorno i nostri spauriti antenati, ricordandogli la loro miserabile condizione di umani: gettati nel mondo senza un perché. Davanti a una tale terrifica situazione, con l’aiuto di peli ferini e pesti di pigmenti terrosi incisero le sagome di grandi animali in movimento. Circa cinquantamila anni fa in una caverna buia, se non proprio la religione, l’essere umano inventava il “sacro”.
E non c’è da stupirsi se a distanza di tutti questi anni, dopo ere e millenni, siamo ancora qui a disegnare un uomo con i baffi e la barba bianchi che ci sorveglia dall’alto tra le nuvole, a fare pellegrinaggi, a segnarci la fronte e ad inginocchiarci, o semplicemente a chiudere gli occhi ed esprimere un desiderio davanti alla scia di una “stella cadente”. È nella nostra natura umana credere a qualcosa di indimostrabile perché siamo noi stessi, ontologicamente, degli eventi inspiegabili. La vita è un prodigio, un atto di fede rinnovato. 
E la storia dell’arte, dalla pittura parietale a Rothko, è la manifestazione di un’unica, infinita, domanda:        cosa ci facciamo qui?  
 Ma credere in qualcosa non è soltanto la soluzione che noi uomini abbiamo trovato per non cadere nella follia, nel buio pesto e muto dell’universo senza risposte, è anche la necessità, affinché la nostra anima non sia in pena e la nostra condizione terrestre una tortura dobbiamo credere anche ad un futuro, che sia migliore del presente. Dobbiamo avere la possibilità di proiettarci in una condizione per cui tutte le fatiche e le sofferenze dell’uomo - che non ha scelto di stare sulla terra - abbiano un senso, una giustificazione, uno scopo. 
I giapponesi lo chiamano ikigai, i buddisti reincarnazione, i cristiani parlano di eterna beatitudine. Tutte finalità che giustificano la vita e danno un significato alla morte. Ma quando lo “scopo ultimo” scompare, a cosa bisogna credere? Se l’aldiqua prende il posto dell’aldilà, se la tecnica sostituisce Dio, se all’esistenza degli uomini viene sottratto il significato del loro stare sulla Terra, perché bisogna vivere?  Il rischio è sprofondare nell’angoscia della nostra insensatezza e di trovare palliativi che ci sollevino da tanta inquietudine. Così, dopo il canto del cigno del Cristianesimo, noi occidentali abbiamo preso in prestito altre spiritualità da popoli lontani e le abbiamo riadattate in una forma  più smart e confortevole. Yoga, meditazione trascendentale, pratiche olistiche, pop-buddismo, sedute sciamaniche fuori città e aperture chakrali popolano ormai da un decennio il nostro immaginario, un menù a cui attingere in casi di spossatezza, stress, crisi coniugali e mal di schiena da scrivania. Se un tempo la spiritualità serviva a preparare i cuori alla morte che verrà, oggi ci si ricorre per sopravvivere alla vita che c’è già. 
Anche per i meno spirituali sono previste salvezze prêt- à-porter. Possono, infatti, fare sempre affidamento su altre pratiche e credenze come l’astrologia, il karma, la lettura dei tarocchi, il manifesting per cercare le risposte ai propri dolori o affrontare le piccolezze del quotidiano.  Non credere a qualcosa di irrazionale, di invisibile e non dimostrabile sembra impossibile anche per l’uomo più laico. E lo sappiamo bene noi italiani che abbiamo cosparso di magia, rituali, esoterismi l’intera penisola e ne abbiamo fatto sapienza popolare e cultura.
Ma se mettessimo per un attimo da parte le ragioni culturali della storia magica del nostro paese, il business della superstizione, il folclore ancora vivente delle processioni e le fandonie degli astroinfluencer, e ci chiedessimo cosa sia, in verità, la spiritualità, cosa potremmo rispondere? La spiritualità di cui tutti parlano, in effetti, esiste? E se esiste, come si manifesta? Com’è fatto un essere umano “spirituale”? A noi del Bestiario in questi mesi di ricerca, incontri, viaggi e studi intorno a questo argomento, ci è parso di percepire una visione individualistica, egocentrica e narcisistica della spiritualità, oggi. Sembra proprio che essere spirituali non significhi più avere, in effetti, uno spirito nobile, grande, sensibile, ma piuttosto uno spirito “pulito”, performante, autogiustificativo e che trova il suo fine solo nel proprio benessere. Pulire i propri chakra, trovare il proprio centro, stare bene con se stessi sono formule che sentiamo ripetere ogni giorno e che sembrano far parte della stessa ricetta con cui la nostra società impasta noi individui, allenati interiormente a sopportare le necessità e le regole sempre più stringenti della macchina capitalista. 
Allo stress del lavoro asfissiante opponiamo i trattamenti ayuverdici, ai ritmi insostenibili delle città lo yoga, all’ingiustizia degli stipendi e alla competizione nei rapporti sociali, la mindfulness.  Toppe esistenziali a buon mercato per sopravvivere senza lamentarsi, e continuare a produrre per il progresso delle nostre evolute società, in cui è lo stesso mercato a creare il problema e ad offrirci i rimedi. 
 
Chissà se invece, paradossalmente, la tanto menzionata spiritualità non si trovasse fuori da noi, nelle pause che ci concediamo da noi stessi, dai nostri obiettivi, dai nostri business plan quotidiani, e non fosse invece una forma di generosità non affettata, guidata da un senso comunitario, per una comunione di essere umani e non di clienti e consumatoMa queste sono solo domande, perché noi del Bestiario non abbiamo risposte. Sappiamo solo che il nostro esercizio spirituale quotidiano è continuare a far vivere questo immenso altare di carta, tempio mobile e scostante dei nostri dubbi, religione senza Dio, senza salvezza per noi e senza pretese di salvare qualcuno.
E di cui voi, cari amati lettori, siete i fedeli. 
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